Racconti - Gravago

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RACCONTI E... RICORDI

Ecco alcune testimonianze
relative ad esperienze vissute
-o sentite raccontare-
che, sicuramente,
provocano ancora emozioni
o, semplicemente,
strappano un sorriso.
1.
Racconti di nonna Rosa Scaffardi
2.
Daniele Biolzi
3.
Pierina Belloli
4.
Vilma Romitelli
5.
Vilma Ricci
6.
Valentina Selene Medici
7,
V. Ceccarini e F. Nespi
8.
Racconti di mamma Angiolina...
Valentina Selene Medici
9.
Valentina Selene Medici

1 - Il lbro del diavolo e...

  Racconti
di nonna Rosa Scaffardi

Il libro del diavolo  non bisogna aprirlo, altrimenti…” così diceva sempre la nonna. E cominciava a narrare le sue storie  ai bambini attenti, attoniti e qualche volta impauriti.
Diamo un cenno di questi racconti, riproponendone un paio.

Una volta, d’estate, tornando dal mercato di Bardi, Giuspèin di Gravago, mentre attraversava il Ceno in secca, si è trovato improvvisamente immerso in una tempesta di sabbia. Fatto straordinario, mai visto. Si dimenò tra rami secchi, polvere e ogni cosa che volteggiava terribilmente. Con grande difficoltà e con uno sforzo immane, ne uscì. Raggiunta l’altra riva, a debita distanza, si fermò ad osservare lo strano fenomeno, in assenza di vento.
E nel viaggio di ritorno a casa, sempre più perplesso, pensava e ripensava alla scena, senza trovare plausibili risposte.
Arrivato in paese, trovò una donna molto anziana, cui raccontò la terribile vicenda che gli era accaduta. Lei, pensierosa, disse: “Eh, Giuspèin, lo so io perché. E  temevo per chi avesse attraversato il Ceno oggi. Dunque, stamattina il mio Mario ha aperto il libro del diavolo. Gli è apparso un essere mostruoso, “brütu e cativu”, e gli ha detto che lui sarebbe diventato suo schiavo, a meno che gli avesse ordinato una cosa che non poteva fare. Ma aggiunse che il diavolo sapeva fare tutto! Mario è stato pronto e gli ha detto di andare a raccogliere tutta la sabbia del Ceno, entro sera”. E Giuspèin: “Ora capisco…”

Un’altra volta, al mattino presto, ancora d’estate, il diavolo, apparso ancora in sembianze di uomo brutto e cattivo, dopo che Pèppu, un ragazzo coraggioso, aveva aperto il libro, disse che non se ne sarebbe mai più andato di casa se non gli fosse stata chiesta una cosa che non sapeva fare. Ed era sicuro di averla vinta. Pèppu chiese al diavolo di andare nei boschi di Pian Ciliegia e raccogliere un quintale di funghi entro mezzogiorno. Detto fatto, il diavolo partì. E il giovane era tranquillo, perché nessuno, in quel periodo, faceva grandi raccolte di funghi.
Là nei boschi si recarono a far pascolare le mucche, nel pomeriggio, la nonna con i suoi nipoti. Trovarono la vegetazione devastata, cespugli di faggio messi a soqquadro e felci calpestate. Da chi?
Il mistero fu risolto la sera, quando, tornando a casa, seppero del libro aperto.  
Ancora una volta il diavolo era stato sconfitto dagli uomini, ma la nonna fece ancora mille raccomandazioni a tutti, perché quella brutta bestia ci avrebbe sicuramente riprovato.  

Altri racconti della nonna riguardavano la visione di persone morte che si materializzavano nei luoghi dove avevano vissuto. Però, precisava, questo succedeva durante la guerra. Ad esempio, una volta era tornata in vita, per poco, una persona che tutti vedevano vagare nei pressi delle case, perché chiedeva preghiere e aiuto per poter passare dal Purgatorio al Paradiso. Molti si spaventavano e pregavano. Poi non comparve più.




2 - Fole, fantasmi, folletti e...

Ricordi di Daniele Biolzi
(dai racconti sentiti... in casa)

“Una volta, durante il filosso, si parlava di fantasmi, streghe e folletti e alcuni, in certi luoghi, “si vedevano e sentivano”.
Per esempio, c’è una zona, sopra Venezia, detta “Ball`ar zögu“ (Balla il gioco)  e si pensa che si chiamasse cosi per dei rituali che facevano lì le streghe nel passato. In quel luogo pare che si vedessero anche dei fantasmi, e a volte intere schiere di soldati morti in battaglia.
Un altro fantasma era il Cane Nero della Riva dei Copelli, che accompagnava a casa i viandanti notturni. Una volta mio nonno, che non credeva alle fole, passando in zona una notte, sentì abbaiare e vide un cane che gli si affiancava e camminava con lui. Cominciò a pensare che il fantasma esistesse davvero!  E disse a se stesso: “Una volta arrivato ai Michelotti... o io o lui! “. Arrivato lì, prese un bastone e cominciò  a bastonare il povero animale, che si dimostrò essere di carne ed ossa…(era infatti il cane di Giuvàn dei Michelotti).
Un personaggio fantastico, di cui mi parlavano mia nonna di Bardi e mia zia Clotilde, era il folletto, un piccolo essere con un cappello che veniva di notte a fare dispetti. Ma non era cattivo, gli piacevano gli animali, soprattutto i cavalli e le mucche. Ai primi faceva le trecce nella coda e non bisognava assolutamente scioglierle, altrimenti lui si arrabbiava e poteva anche far morire di fame l`animale, dato che gli nascondeva il cibo. Per tenerlo lontano, si potevano usare degli indumenti di colore rosso; se mettevi un fazzoletto di tale colore davanti alla stalla, lui non entrava.
Poi c`erano le streghe (“strie“) , donne (a volte anche uomini, gli “striòn“) che con un solo sguardo potevano far ammalare un bambino e ribaltare una slitta e far piovere sui raccolti.
E la maggior parte delle persone di Gravago credeva a tutte queste cose!





3 - La quindicesima maialina

Ricordo di Pierina Belloli
(abitava, da bambina, a Ca’ del Tedesco,
poco distante da Venezia,
ora abita a Noceto, vicino a Parma)

“La scrofa di Luigi di Brazzadiracca aveva partorito 15 maialini. Uno, però,  una femminuccia per la precisione, doveva essere eliminata, perché la cucina (pardon, il seno della mamma) offriva solo 14 posti!  Mia mamma, rendendomi felicissima, decise di adottare la maialina. E io, che avevo 7-8 anni,  avrei dovuto occuparmi di lei. Lo feci, naturalmente, con tanto amore. Passai molte notti insonni, sulla panca di legno, per stare vicino alla nuova amica. Le davo il latte col cucchiaio e la piccolina cresceva bene, forse troppo bene. Eh, sì, perché un brutto giorno, tornando da scuola (andavo a Cerreto), la trovai… fatta a pezzi. Non potevo certo immaginare, allora, che il destino dei maiali era (ed è) quello. Scoppiai in un pianto dirotto, che, probabilmente, hanno sentito perfino quelli di Venezia!”.
(Un breve cenno storico sulla “Casa del Tedesco”. Alla fine della prima guerra mondiale un soldato tedesco, disperso su quei monti, era andato a vivere in quella casa, che era disabitata. Vi rimase diversi anni, poi disse ad una persona di Brè che lui emigrava in America e le lasciava la casa in custodia. Quando i genitori di Pierina decisero di sposarsi, questa persona offrì loro quella casa e per un periodo pagarono anche un affitto. Poi il tedesco smise di farsi vivo e troncò ogni contatto. Quindi la persona affidataria non volle più l'affitto. Quando andarono ad abitare a Tosca, la casa rimase vuota ed ora è consumata dal tempo e dalla vegetazione).




4 - Gli anni Sessanta a Gravago

  Ricordi di Vilma Romitelli

“La mia famiglia ha abitato, per alcuni anni, a Gravago perché mio padre era un mulattiere, un uomo forte e robusto come i suoi compaesani e parenti.  D'estate, diversi di loro si trasferivano nella Val Noveglia: erano viaggi lunghi e faticosi, perché venivano dalle Marche e più precisamente da Chiaserna. Erano molto uniti tra loro e con le loro famiglie, un po’come gli extracomunitari di ora. Venivano chiamati i “Romani”, forse per il loro accento. Quelli di Noveglia, con fiducia, altruismo e rispetto, ci hanno aiutati e rispettati, tanto che noi li sentivamo un po’ parenti. Mio padre li stimava molto, diceva che era brava gente e che gli volevano bene. Si è sentito sempre marchigiano, anche se poi nel paese d’origine non è più tornato. Anch'io mi ritengo marchigiana, ma un po’ anche gravagotta, essendo nata a Brugnola e avendo vissuto alcuni anni, da bambina, in Val Noveglia. Ho tanti bei ricordi di quegli anni e ho grande stima per quella gente che mi faceva sentire una di loro, ma accettava che noi “Romani” mantenessimo la nostra identità.  
Ecco un  ricordo particolare: “…quando tornavamo a Noveglia, i primi giorni stavamo nell'albergo dell'Ave e Piero, poi mio padre cercava una casa. Un’estate, però, abbiamo dormito nelle tende, in un bosco vicino a Valmozzola ed è stato bellissimo. Però c'erano delle lucertole grosse, gialle e marroni e, quando andavamo in tenda, avevo paura. Noi bambini ci divertivamo parecchio e la sera ridevamo tanto che mi veniva il mal di pancia. Mio padre diceva che eravamo “sciapi” e di smettere, ma era molto difficile, perciò cercavamo di ridere piano…”




5 - Il baule dei ricordi

Vilma Ricci

"Non posso che essere grata ai miei avi per aver faticosamente conseguito un relativo benessere in patria ed avere così evitato di vivere il dramma dell’emigrazione. Diversamente, non sarei nemmeno venuta al mondo, in quanto i miei genitori difficilmente si sarebbero incontrati.
Tuttavia il mio nonno paterno Ettore Ricci, già sposato con Maria Bertorelli e padre del piccolo Marino, nel 1913 fu costretto ad emigrare da Monastero di Gravago a New York per circa un anno, per realizzare in fretta il denaro necessario a concludere i lavori di ripristino della casa coniugale a Pieve di Gravago. Ettore, con l’aiuto di suoi conoscenti, trova presto lavoro come inserviente presso l’Hotel Knikerbooker e pensa che con il salario e le generose mance potrebbe mantenere il suo piccolo nucleo familiare nel Nuovo Mondo e magari in seguito intraprendere un’attività in proprio, come hanno fatto tanti suoi compaesani. Scrive così alla moglie, proponendole di raggiungerlo in nave col piccolo Marino. Maria risponde che è d’accordo, progettando già in cuor suo una nuova vita, ma … la lettera non sarà mai spedita. La suocera Emma, timorosa di perdere la collaborazione della giovane nuora, invece di portarla all’ufficio postale, la distrugge. In mancanza di altri strumenti di comunicazione, Ettore interpreta quel lungo silenzio come un diniego. Prepara uno splendido baule con dentro ogni sorta di regali: stoffe pregiate per l’attività di sartoria della moglie, strumenti d’uso per la casa, utensili per il suo lavoro e  prende di nuovo il piroscafo verso l’Italia, con il gruzzolo necessario per completare i lavori della casa.
E’ difficile immaginare la gioia nel rivedersi e il rammarico per il progetto naufragato. Del resto la breve vita di Ettore sarà ugualmente ricca di soddisfazioni sia sul lavoro che in famiglia. Dopo pochi anni nascerà il secondo figlio Luigi, detto Gino, mio padre, che insieme a Marino collaborerà attivamente con lui in ogni settore della sua attività, dalla falegnameria alla meccanica. Sarebbe inutile e banale punteggiare le esperienze esistenziali con dei “se …” e dei “ma …”. Perciò a me, che sono arrivata molto tempo dopo, non resta che dire che sono felice di questo ritorno a casa, perché sia Ettore che Gino hanno lavorato intensamente per tutta la vita con dedizione e amore per la loro comunità.
A me rimane un vecchio baule di cui non ho mai potuto vedere il contenuto originario. Ma lo guardo con affetto e cerco di immaginare lo stupore e la gioia negli occhi di mia nonna nel rivedere il suo sposo e i doni meravigliosi che le portava dalla lontana America".


ALTRE INFO  su Gino Ricci
nella pagina
PERSONE E PERSONAGGI... di Gravago

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6 - Vecchie pietre...

Riflessioni di
Valentina Selene Medici

No, vi prego non chiamatele solo "vecchie pietre". Forse lo sono per chi, in un giorno di festa, giunge per caso alla ricerca di luoghi antichi.
Non sono pietre. Sono case, le nostre, quelle che da sempre amiamo. Sedete sulle panche all’esterno e appoggiate il capo al muro. Chiudete gli occhi e ascoltate.
Allora le pietre parleranno. Non storie di ricchezze ma di sacrifici e duro lavoro. Di giorni scanditi dalle stagioni. Di bimbi nati in quelle stanze e affidati alla Madonna. Della gioia di vedere i primi passi a piedi scalzi nel cortile. Del pianto di ginocchia sbucciate, guarite da un bacio. Di zolle dure, sudore e zappe in spalla. Del ritorno a sera, dove nella cucina c’era sempre una minestra a rinfrancarti e un bicchiere di vino a toglierti la stanchezza e darti la voglia di fermarti ancora a scambiare parole. Diranno la festa, agli occhi increduli della prima lampadina accesa. Di quella radio a volte gracchiante che apriva al mondo e non si capiva, come le valvole all’interno potessero parlare. Di vite intere parleranno e anche di morte, che della vita fa parte. Per farvi capire che non sono solo pietre.
E mentre poi vi allontanerete, non voltatevi se vi parrà di sentire voci di giochi o preghiera di donne, su pane da cuocere. Non voltatevi… Non le scorgereste. Racchiudeteli nel cuore e fatene dono”.


Un angolo di Pianelleto (foto di Flavio Nespi)




7 - Leggende e racconti della Valceno




Il libro,
(una sessantina di pagine)
pubblicato nel 2015,
è nato dalla collaborazione tra
Vinicio Ceccarini e Flavio Nespi.

In diversi capitoli
si parla della Val Noveglia...
Si può visualizzare
in due formati...




8 - Mamma Angiolina racconta...

Racconti della mamma
"La storia della ragazza e del diavolo"
Valentina Selene Medici
      
Si stava bene nel cortile fra le case, nei pomeriggi primaverili. Sedevano su basse panche le vecchie, lavorando vimini, raccolti al mattino presto, nel greto del torrente. Toglievano prima la scorza usando un attrezzo, che nel dialetto veniva chiamato sgurbia.
Guardavamo affascinati, noi bambini, quelle dita magre e avvizzite, che si muovevano agili con quei sottili rami, umidi di linfa, intrecciandoli e trasformandoli in canestri e cesti di diverse misure. Li avrebbero poi venduti al giovedì mattina, nel mercato del paese. Ci guardavano sorridendo, con sorrisi vuoti e occhi infossati. Sapevano che stavamo aspettando i loro racconti, e a turno cominciavano. Ma quando raccontavano la storia della ragazza e del diavolo, prima di cominciare, si facevano il segno di croce e ci invitavano a fare altrettanto….

”Era una ragazza bella, che in un pomeriggio di festa era andata in paese con le amiche. C’era la fiera e su una pista di legno si poteva ballare al suono di una fisarmonica e di una chitarra. Non le mancavano certo i pretendenti e aveva ballato a lungo con i ragazzi del paese, amici di sempre. Si stava riposando, seduta su una panca, quando un giovanotto sconosciuto le chiese il permesso di accomodarsi accanto. Era bello, con modi gentili e uno sguardo affascinante. Si presentò con il solo nome e aggiunse che non poteva invitarla a ballare perché,a causa di un recente incident,e aveva qualche difficoltà nel muovere i piedi. Le disse che veniva da una città abbastanza lontana e cominciò a parlare della vita comoda che vi si conduceva. Le case erano belle, con grandi comodità, come l’acqua calda corrente in cucina e in bagno. Non c’erano certo i gabinetti nel cortile, come in quel piccolo paese. Vi erano negozi illuminati con la luce elettrica e nelle vetrine erano esposti abiti che avrebbero fatto la felicità di qualunque donna e certamente sarebbero stati perfetti, anche indossati da lei.
Chiacchierarono a lungo e la ragazza pendeva dalle sue labbra. Quando le amiche la chiamarono per fare ritorno a casa, si riscosse come se uscisse da un sogno. L’uomo le chiese il permesso di andare a farle visita a casa, dopo qualche giorno e lei accettò, quasi senza renderse ne conto. Raccontò tutto alla madre, che restò perplessa. Il suo istinto le diceva di non fidarsi, ma aspettò ad esprimersi perché prima era giusto conoscerlo. Dopo qualche giorno, la sera era già scesa e le due donne, che vivevano sole, dopo il recente lutto che le aveva private di marito e padre, avevano già consumato una cena frugale, sentirono bussare alla porta. La madre stava lavorando a maglia e quindi fu la ragazza che si alzò per andare ad aprire. Si trovò di fronte al giovane di città, che chiese il permesso di entrare. Lo fece accomodare e lui salutò educatamente la padrona di casa, dicendole di non alzarsi e le porse una scatola di dolci. La donna ringraziò, ma nel prendere il dono, sentì un brivido di paura. Cercò di rimanere tranquilla per poter giudicare lucidamente l’ospite. Si era seduto sulla panca vicino alla ragazza e parlava incessantemente. La stanza era illuminata solo da una candela e quindi non era possibile vederlo bene in volto anche perché si era seduto in modo da avere la luce alle spalle e non aveva mai cambiato posizione. Se ne stava fermo e con i piedi sotto alla panca. Dopo un paio di ore, si accomiatò, scusandosi anche con la signora per il suo modo strano di camminare ma disse che presto si sarebbe ripreso e promise, se aveva il loro permesso, di tornare. La ragazza lo accompagnò alla porta e sedutasi di nuovo accanto alla madre, cominciò a tessere le lodi di quel nuovo amico. Per risposta ebbe solo dei dubbi che però, purtroppo, la lasciarono indifferente. Le visite si ripeterono, sempre alla sera, sempre con doni e anche con lo stesso modo di stare seduto. La giovane, totalmente presa da questo amore, parlava ormai solo di come sarebbe stata favolosa la vita che le prometteva l’uomo, nella grande città. La madre non riconosceva più la dolce e assennata figlia e i suoi tentativi di farla rifletter erano giudicati come invidia. Una sera, durante una delle solite visite, la madre era intenta come sempre, nel lavoro a maglia, quando, un gomitolo le cadde a terra e lei si chinò per raccoglierlo. Nel fare ciò, guardò sotto la panca, dove teneva i piedi l’ospite e quello che vide le gelò il sangue. Non erano piedi quelli che vedeva, ma zoccoli. Con uno sforzo immane, mantenne la calma e con una scusa si alzò e andò nella camera da letto. Il giovane cercò di approfittare di quell’attimo per carpire il primo bacio alla ragazza, ma non ne ebbe il tempo perché la donna rientrò. Si avvicinò sorridendo all’uomo dicendogli di guardare che cosa avevano regalato alla figlia. Lui allungò la mano e lei vi pose sopra la coroncina benedetta, ricordo della Prima Comunione. La coroncina sfiorò appena la mano tesa e la stanza fu invasa da un gran fumo e l’uomo si dissolse urlando e gemendo. La ragazza non capiva cosa fosse successo, tremava come una foglia e sembrava appena uscita da un tremendo incubo notturno. Quando, dopo essersi calmata, ascoltando le spiegazioni, si rese conto, che il giovane altri non era che il demonio, che cercava di rubarle l’anima. Si buttò tra le braccia della mamma, ringraziandola per averla salvata e scusandosi di non averla ascoltata prima. Il giorno seguente, raccontarono il fatto al parroco, che diede a loro e alla casa una speciale benedizione. Nella giovane ritornò la serenità ma quella coroncina rimase sempre accanto a lei”. (Valentina Selene Medici)




9 - Una macina racconta...

"Riflessioni di una macina"
Valentina Selene Medici
      
      
Quanti e quanti chicchi ho macinato, a Bardi come a... Gravago, quando, ancora giovane e robusta, lavoravo in quel mulino.
La spinta forte dell’acqua mi faceva girare, mentre mi raccontava del suo percorso, di quanto aveva camminato, fra sassi e balzi, in un letto che piano s’allargava. Mi raccontava di case sparse, di suono di campane, di donne inginocchiate a lavare panni. Di bimbi che giocavano e di pescatori in attesa. Giravo io, schiacciando semi, portati da contadini. Ricordo le attese per riempire un sacco di bianca farina. Quella che donne sapevano trasformare in grosse micche di pane. Quel pane, prima benedetto e poi tagliato a larghe fette, attese da grandi e piccini.
Passavano le stagioni. Cambiavano le persone. Anziani, che più non vedevo e giovani, che curiosi osservavano quel mio instancabile girare. Poi un giorno, d’improvviso, l’acqua si è fermata, bloccando il mio girare. Non capivo che stesse succedendo. Sentivo discorsi strani. Di mulini grandi, che non usavano acqua. Di silos per contenere chicchi. Di macchine che impastavano, senza che le donne faticassero.
Un giorno, dal grande portone, sono entrati uomini sconosciuti. Mi hanno messo fasce e un lungo collo di ferro mi ha sollevato e posto sopra uno strano carro che faceva rumore. E’ stato lungo il viaggio e si è fermato qui, in questo luogo sconosciuto. C’è un parco grande e molto bello. Ci sono ombrosi alberi. Cè gente che cammina avanti e indietro. C’è il dolce suono di una campana, ma non c’è un mulino. Ho compreso, dai discorsi, che ero, con le mie sorelle e altri amici, nel parco di una Casa di Riposo. Ci sono panchine per gli anziani ospiti. E c’era un prato per me. Mi sono sentita inutile e vecchia. Che ci facevo qui? Dove erano i miei chicchi? Perché l’acqua più non mi parlava? Avrei voluto piangere, ma lo può fare una vecchia macina? Un giorno ho cominciato ad ascoltare i discorsi intorno a me. Parlavano di tempi antichi. Di ricordi, di mulini. Di grano biondo e pane profumato, della loro gioventù. Se sapevano di me, allora non mi sentivo sola. Se avevano i miei stessi ricordi, potevo stare bene qui.
Pensionata, fra pensionati. Lascio che la pioggia mi lavi, che il sole mi riscaldi, che i racconti intorno, e voci di poesia accompagnino il mio riposo. (Valentina Selene Medici)




Visto che le "storie", in passato,
si raccontavano
soprattutto nel "dopocena"
puoi leggere
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