La vita del boscaiolo - Gravago

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STORIA
"LA SCELA DI CAMBIARE VITA A NOVEGLIA"


La terza parte
l'intervista a Iginio Prati,
dello scrittore Ezio Marinoni
su Noveglia e Gravago
pubblicata su

con documentazione fotografica dell'autore
(5 dicembre 2020)

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La scelta di cambiare vita a Noveglia





Da Noveglia tanti se ne sono andati; a Noveglia qualcuno è arrivato.
Siamo sulle pendici dell’Appenino Parmense, nel Comune di Bardi, terra di allevamento del pregiato e ricercato cavallo bardigiano.
Iginio Prati oggi è un boscaiolo. Cosa fa e come vive un boscaiolo in Val Noveglia nel terzo millennio?
Nato in Trentino, Iginio si sposta per lavoro a Milano, dove si fa una posizione all'interno di una azienda che commercializza articoli sportivi.

      
Anno dopo anno il lavoro aumenta sempre costantemente, oltre alle responsabilità: l'azienda chiede sempre di più, senza concedere una adeguata remunerazione o le attese soddisfazioni. Quel lavoro si trasforma nell'unico motivo di vita (in qualche occasione fino quattordici ore al giorno): troppe feste sacrificate alla libertà individuale, fino a superare i 280 giorni di lavoro...
Quando non vede più la fine di questo percorso, che lo attanaglia come in un labirinto senza uscita, Iginio decide di cambiare vita.
Il 2004 è l’anno in cui riesce a cambiare tutto per fare finalmente qualcosa per se stesso!
Dopo una lunga ricerca, vana in Piemonte e in Lombardia, trova a Predarìo quel che sognava. Una casa in collina esposta a sud e terreni per allevare capre (dalle quali ricava latte e formaggio), capretti (da macellare per il ristorante) e cavalli bardigiani (per allevamento, doma e maneggio).

      
Un vecchio cascinale diroccato dopo un lungo abbandono, una superficie agricola che gli consentirà di allevare animali per aprire il suo agriturismo. A partire dal 2008 l’attività fiorisce a Cà Campasso. Ai turisti e ai commensali si offre tutto di produzione propria, eccetto il vino.
Qualche anno dopo, l’agriturismo diventa un bed and breakfast.
Serve altro lavoro per vivere, Iginio diventa boscaiolo.
Questo mestiere vanta una antica tradizione in Appennino (sublimato nel romanzo breve di Carlo Cassola “Il taglio del bosco”).
Mi aiuta a conoscerlo anche un libro collettaneo di memorie su Gravago e la Val Noveglia: “Il taglio del legname come materiale da ardere o per costruire carbonaie e per creare assi utilizzabili in vario modo, costituiva un’occupazione, anche se spesso saltuaria, contemporanea al lavoro nei campi.
C’erano i boscaioli-taglialegna, i carbonai, i segatori. E tutto veniva fatto manualmente. Le lunghe seghe, azionate da due persone, erano l’unico mezzo per tagliare fusti di grosse dimensioni (pag. 50).
“Quando sono arrivato qui, c’è voluto un poco a capire dov’ero e a farmi accettare dagli abitanti del luogo. Le storie di montagna e le leggende erano ancora forti, raccontate dai vecchi. Io le ho volute conoscere e approfondire per entrare in empatia con questa terra. Le curandere, ad esempio...”.
“Chi erano? Che cosa facevano?” gli domando.
“Non troverai niente di scritto su di loro. Erano principalmente donne, qualcuna c’è ancora, ma non amano apparire. Qui vengono chiamate “medegone”. Guariscono le malattie della pelle, dello stomaco e delle articolazioni, soprattutto. Usano riti e litanie, durante le quali applicano le loro mani sulle parti malate. Altre loro specialità sono le storte alle caviglie, il mal di stomaco e il fuoco di Sant’Antonio. Io mi sono fatto curare da una di loro, sono guarito perfettamente senza far ricorso a medici o medicinali”.
Non è una sfiducia verso la scienza, la sua, ma una adesione incondizionata ai riti e ai ritmi della terra in cui ha scelto di vivere “da grande”.

      
La bottiglia di Gutturnio è a metà, mentre le nostre chiacchiere divagano nel buio della sera, nella grande sala per le colazioni che al mattino riserva lo spettacolo di questo Appennino che sembra espandersi e non finire mai, andare oltre i confini dei colli e dei monti che gli occhi vedono ad ogni risveglio.
Domando a Iginio come si svolga il suo lavoro di boscaiolo… Ancora una volta, lui parte da lontano, mi racconta che erano tre i mestieri dell’Appenino: il taglialegna, il carbonaio, il mulattiere.
“Dopo averle comprate, si tagliano le piante. Noi lavoriamo ‘tronconatura’, che significa tagliare i tronchi di una lunghezza pari a quella del tavolame che se ne vuole ottenere. Le lunghezze sono 2 metri oppure 1 metro e 20 centimetri. Il taglio del tronco avviene con una motosega, si deve lavorare in coppia per motivi di sicurezza. Il tronco, una volta segato, lo si passa a mano all’altro boscaiolo. Dove non si può passare, quando il terreno è troppo scosceso, si butta in basso in un luogo raggiungibile in un secondo tempo. Quando queste operazioni sono finite si porta tutto su un piazzale a bordo strada, dove il commerciante che ha comprato in blocco verrà a prendere e a caricarsi il materiale”.
“Che cosa è rimasto degli antichi mestieri?”.
“Il boscaiolo, ne hai uno davanti a te. Il mulattiere resiste dove non si riesce ad andare nel bosco con i mezzi meccanici. Il carbonaio appartiene ormai alla storia della montagna”.
Iginio si alza, va nel salotto e torna con un libro in mano: “Appennino e alta collina parmense”. Ci sono già due segnalibri, devo solo aprirlo e leggere…
Se il fabbro, il falegname, il sarto, il calzolaio lo troviamo ovunque, finché la rivoluzione industriale non fece sparire tutti questi mestieri, in montagna avevamo mestieri che solo il bosco e la conformazione fisica del territorio rendevano possibile e necessari”.

      
Il taglialegna era un lavoro che poteva essere fatto solo in squadra e prevedeva una gerarchia, basata sull’anzianità e sulla conoscenza dei boschi e del legname. Il lavoro era primaverile ed autunnale, in quanto in estate la troppa linfa tendeva a far marcire i tronchi. L’estate era utile per trasportare il legno tagliato, a dorso di mulo, verso le legnaie.
Nei boschi di faggio il legno di piccola pezzatura veniva trasformato in lignite: era un lavoro complesso, che richiedeva di rimanere sempre accanto alla catasta che bruciava lentamente. In genere, il carbonaio si trasferiva con tutta la sua famiglia accanto alla carbonaia, dopo aver costruito una capanna di legno e fogliame.
Impiegarono due giorni a costruire il capanno (…). Ogni dieci pini ne risparmiava uno. Vanno infatti lasciate un centinaio per ettaro, che costituiscono il madricinato o, come dicono anche con poetica espressione, il corredo del bosco” (Carlo Cassola, Il taglio del bosco”).
Il mulattiere. Un antico proverbio dell’Appennino emiliano recitava così: “Chi vuol provare le pene dell’inferno, faccia il fabbro d’estate e il mulattiere d’inverno”. Il mulattiere possedeva o conduceva almeno 4 o 5 muli, con essi era in grado di attraversare qualunque strada o sentiero. Era un mestiere talmente antico che, fino all’inizio del XX secolo, quando si sono aperte le prime grandi strade, le tecniche di trasporto e lo stile di vita del conducente di muli sono rimasti invariati. In inverno rifornivano i villaggi di cibo, legname e stoffe. D’estate trasportavano dal mare alla pianura e ai monti il sale e tutte le merci che provenivano dal mare o dalle zone di produzione.
Vilma Romitelli ce ne ha lasciato una testimonianza nel volume “Ricordi vivi da Gravago”: “Gli Anni Sessanta a Gravago. La mia famiglia ha abitato, per alcuni anni, a Gravago perché mio padre era un mulattiere, un uomo forte e robusto come i suoi compaesani e parenti. D’estate, diversi di loro si trasferivano nella Val Noveglia: erano viaggi lunghi e faticosi, perché venivano dalle Marche (...)”.
Un viaggiatore francese, nel 1805, si sposta da Bobbio a Genova, e tiene un diario di quel viaggio avventuroso a dorso di mulo, condotto da un mulattiere. La sua descrizione del territorio appenninico è felice e fedele alla realtà.
Presi una guida e partii di buon mattino (...). Seguii un sentiero stretto che non era certo tracciato ad arte; gli uomini a piedi e i muli, soli, ne hanno marcato i solchi. Salire, scendere, risalire, riscendere ancora, quasi sempre fra due precipizi; tale fu la mia strada per due giornate, ed ebbi occasione di notare che la terra degli Appennini è molto più tormentata, e per così dire più accidentata di quella delle Alpi; vi sono certe tortuosità montuose e brevi come flutti del Mediterraneo, le cui onde sono assai più corte di quelle del vasto Oceano. I piedi della mia guida e quelli della mia cavalcatura procedono senza interruzione sulle pietre, sui ciottoli, dei quali il sentiero è coperto per il franamento parziale e quotidiano delle rocce soprastanti”.

      
“Come si vive in questo paese?”.
È l’ultima domanda, la tenevo in serbo per la conclusione del nostro colloquio.
Con soddisfazione, Iginio mi risponde sorridendo: “A Noveglia la qualità della vita è alta, secondo me, pur con i chiaroscuri e i problemi di tutte le comunità montane di oggi”.
È contento di aver cambiato vita, di aver scelto un nuovo stile di esistenza, e di praticarlo proprio a Noveglia, dove il mondo finisce perché non si va da nessuna parte.
Bibliografia
- Pino Bertorelli/Anna, Luisa e Rita Cappellazzi/Valentina Selene Medici/Vilma Romitelli – Ricordi vivi     da Gravago (Gli anni Cinquanta e Sessanta in Val Noveglia)
- Carlo Cassola – Il taglio del bosco
- Alfredo Morosetti – Appennino e alta collina parmense
- E. de Jouy - L'Hermite en Italie: observations sur les moeurs et usages des Italiens
 au commencement du XIXe siècle, tome 1er, Pillet-Ainé, Paris, 1825
@Ezio Marinoni

Sala colazione del B&B "Prati dei Campassi," di Iginio Prati
(foto tratta dalla pagina Facebook di Ezio Marinoni)



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